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La storia della Lebole: ascesa, trasformazione e declino della grande industria della moda ad Arezzo

Arezzo (sabato 3 maggio 2025) — Il 15 dicembre 1987 segna una svolta cruciale per l’industria tessile e manifatturiera aretina: in prima pagina, il Corriere Aretino titola “Lebole a Marzotto”. Si apre così l’ultima fase della storia della Lebole, storica azienda della moda maschile che aveva rappresentato per decenni un modello industriale, sociale e culturale. Il capitolo finale giungerà nel 2002 con la chiusura definitiva dello stabilimento. Il passaggio dalla famiglia fondatrice allo Stato risale già al 1972; successivamente, l’azienda venne ceduta a un gruppo privato leader del settore, la Marzotto, preferita da ENI alla Benetton. Una scelta che sancì il distacco dell’impresa dal suo territorio d’origine, decretando un punto di non ritorno.

di Alice Grieco

Tra il 1959, anno della nascita della Lebole, e l’epilogo del 2002, si consuma la parabola di un’intera epoca. L’Italia del dopoguerra e del boom economico fece da sfondo a una trasformazione profonda della società e del mercato del lavoro, in particolare per le donne, che iniziarono a uscire dai tradizionali ruoli domestici per entrare nel mondo produttivo. L’industria Lebole rappresentò un’occasione di emancipazione femminile: un sogno costruito con impegno e sacrifici. Alla base di tutto, l’intuizione di una donna: Caterina Bianchi, madre di Mario e Giannetto Lebole. Fu lei a trasformare l’attività familiare di vendita di stoffe in un laboratorio sartoriale strutturato, capace di interpretare i desideri di un’Italia desiderosa di rinnovamento e benessere.

I figli di Caterina, Mario e Giannetto, diedero forma industriale alla visione materna, sviluppando una strategia produttiva innovativa che trovò compimento nel 1962 con l’inaugurazione dello stabilimento Lebole Euroconf alla Chiassa, uno dei più avanzati in Europa. L’approccio si ispirava al modello industriale statunitense, con tecnologie moderne, efficienza organizzativa e una produzione di massa che determinò una rapida crescita economica. Il marchio Lebole si affermò rapidamente, e con esso crebbe anche la forza lavoro: da centinaia si passò a migliaia di operaie – le celebri “leboline” – che divennero oltre 5.000 in vari stabilimenti. Il marchio entrò nell’immaginario collettivo anche grazie a efficaci strategie pubblicitarie: tra il 1964 e il 1974 lo slogan “Ho un debole per l’uomo in Lebole”, recitato da volti noti come Armando Francioli, Cochi e Renato e Dino Sarti, divenne un simbolo riconoscibile, insieme all’iconico omino “metro”.

In un contesto economico ancora fortemente agricolo, la Lebole rappresentò per molte giovani donne – e anche per madri di famiglia – un’opportunità concreta di autonomia economica e personale. Tuttavia, l’ingresso nel mondo del lavoro portò con sé anche sfide complesse, tra cui la conciliazione tra attività lavorativa e responsabilità familiari, elementi che alimentarono le prime rivendicazioni sindacali in ambito industriale femminile.

La prima cesura significativa si registrò nel 1972, quando l’azienda – già partecipata da Lanerossi – venne acquisita dall’ENI, entrando nell’orbita delle partecipazioni statali. Si trattò di un cambio di gestione che segnò l’inizio delle difficoltà. Dopo la tragica morte di Mario Lebole nel 1983 e la scomparsa di Giannetto per malattia, i Lebole lasciarono l’azienda, pur restando attivi nel settore con la fondazione della Gio.Le (Giovane Lebole). La gestione statale, tuttavia, non riuscì a garantire la continuità del successo industriale. Nel 1987, la cessione del marchio al gruppo tessile veneto Marzotto, estraneo al contesto territoriale aretino, accelerò un processo di progressivo ridimensionamento.

Negli anni successivi, il Corriere  documentò quotidianamente proteste operaie, scioperi, vertenze sindacali e chiusure progressive degli stabilimenti. Nel 1998 chiuse il sito produttivo di Rassina, mentre la sede storica di via Ferraris fu progressivamente svuotata. Le istituzioni locali e le organizzazioni sindacali si trovarono impotenti di fronte a un declino inesorabile, accentuato dalla crescente competizione dei mercati emergenti a basso costo.

A dicembre 2001 vennero svuotati i magazzini; nel 2002 fu staccata l’energia elettrica e furono consegnate le chiavi: la fine di una storia industriale. Le ultime 245 operaie – le ultime “leboline” – furono licenziate. Con la chiusura, Arezzo dovette affrontare anche l’interrogativo sulla destinazione futura dell’area produttiva. Nonostante l’allora sindaco Luigi Lucherini avesse sostenuto la proposta di realizzare un outlet, prevalse un’altra visione. Il sito fu acquistato dalla famiglia Carrara, imprenditori del settore cartario di Pistoia, e da allora versa in uno stato di progressivo abbandono.

Quanto al marchio Lebole, nel 2005 passò alla Valentino Fashion Group e, nel 2011, tornò alle origini grazie alla società Textura, fondata da Attilio Lebole, figlio di Giannetto. Ancora oggi, Textura continua a distribuire abbigliamento maschile con lo storico marchio Lebole.

La storia della Lebole rappresenta un’eredità immateriale fondamentale per l’identità collettiva di Arezzo. Cultura industriale, innovazione, emancipazione femminile e impatto sociale si intrecciano in una vicenda che ha segnato profondamente la città. L’immagine della maglia amaranto dell’Arezzo Calcio, con lo sponsor Lebole sul petto durante gli anni in Serie B, resta impressa nella memoria come simbolo di un’epoca di orgoglio e sviluppo.

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Tag: , , Last modified: Maggio 3, 2025
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